Ed eccoci qua.
Quasi un anno e mezzo che non ci ritrovavamo tutti insieme. Oddio, "tutti insieme" ancora no, manca Fëaringel. Ma qualcosa mi dice che rivedremo presto anche lui.
Quasi un anno e mezzo che non vedevo Hierax. Non è cambiato molto. Sempre la solita aria imperscrutabile, ancora più accentuata, semmai. Dalle lunghe ore di meditazione passate a Khalpen, probabilmente.
Quasi un anno e mezzo che non entravamo in questo giardino e non salivamo queste scale, interminabili. La porta dello studio dell'Arcinquisitore. La penombra accogliente e al tempo stesso sottilmente inquietante.
Avevo un po' paura di questo colloquio, lo ammetto. Dopo l'ultima missione, da quella volta del Basilisco, siamo praticamente spariti. Oh, con motivazioni più che buone, certo. Ma Nemrodus non è il tipo da lasciare che ci si serva della sua organizzazione come di una locanda. Ci ha dato molto, e molto ha chiesto in cambio. Eppure, il suo tono è dimesso, colloquiale, come se fossero passati pochi giorni dall'ultima volta che siamo stati qui.
- Vi trovo bene, ragazzi. Tu, Hierax, sei in ottima forma. Moran, ho saputo che finalmente siete riusciti a ricacciare gli Huleani oltre i confini di Darokin. E tu, Ice Green... sembra che le cose vadano bene anche a te, non è così?
- Grazie, Eccellenza. Non ci possiamo lamentare.
- Eh, ne stanno succedendo di cose, nel vasto mondo... ho un po' nostalgia di quando mi venivate a trovare più spesso e mi portavate notizie interessanti. - Oh, oh, ci siamo. - Cosa volete, sono un povero vecchio, sempre chiuso tra queste quattro mura, se non viene qualcuno a raccontarmi cosa accade...
Bene, adesso ci dice cosa vuole che facciamo per lui. D'altra parte, siamo qui per questo.
- ...però ogni tanto qualcosa vengo a sapere anche io. Già. Per esempio, di cosa è successo o sta succedendo nella foresta di Canolbarth. Voi due - si rivolge a me e Ice - probabilmente già ne avete sentito parlare. Tu Hierax, eri lontano, invece, quando è iniziata questa storia.
- Eccellenza, ho sentito qualche storia, da quando sono arrivato. E naturalmente ricevevo le Vostre lettere, al monastero.
- Allora ne sai abbastanza per seguire il discorso. Alberi morti, creature mutate, piogge di cenere. Il reame elfico quasi distrutto, la popolazione in fuga. Orde di mostri ovunque. Sì, proprio una brutta faccenda. Il genere di faccenda su cui bisogna saperne di più.
Ci guarda, uno scintillio degli occhi verdi dietro le fessure della maschera. Inizio a capire il perché di questa convocazione proprio ora.
- Naturalmente non posso chiedervi di andare laggiù a indagare di persona. È un posto brutto, davvero molto brutto ora. Ma ci sono dei modi in cui potreste raccogliere delle informazioni... se voleste essere così gentili verso un vecchio amico...
Ci guardiamo di sfuggita, non c'è bisogno di consultarci. Eravamo già d'accordo prima. Siamo qui per ricomporre la squadra, e quale sarà la missione importa poco.
- Eccellenza, faremo del nostro meglio.
- Ve ne sono grato, tanto grato davvero. Faccio portare una tazza di tè, intanto che vi espongo i dettagli? Bene. Allora, entro pochi giorni ci sarà un incontro diplomatico ad alto livello, in un luogo che conoscete molto bene...
Nella piccola comunitá di Trintán, Gúy De Kere se ne stava seduto su una gigantesca sedia a dondolo, i fogli delle memorie che era intento a scrivere tenuti sul tavolo da un fermacarte di cristallo. Gúy, un uomo minuto rispetto ai suoi fratelli, era peró l'unico praticante della magia degno di questo nome nel villaggio. La sua abilitá nell'evocare creature aveva reso alcuni dei lavori piú faticosi una storia del passato; questo, piú il suo temperamento gioviale e la sua acuta intelligenza lo avevano reso, sebbene non ufficialmente, il vice-sindaco del villaggio.
Osservava da sopra una delle pagine che teneva in mano le le possenti pietre del mulino ad acqua, una delle costruzioni piú famose del sud di Glantri. Al suo interno si trovavano le mole che macinavano i cereali, ma non solo. Le sei pale ad acqua, ognuna alta come due uomini adulti, azionavano delle seghe che tagliavano il legname per la vendita, ed i soffietti per la forgia dell'acciaio nell'altoforno. Anche da laggiú poteva sentire chiaramente la ritmica cadenza dei martelli sulle incudini. Era il vespro, e presto il fabbro, il carpentiere ed il mugnaio sarebbero passati da lui per la solita chiacchierata serale, alla fine della giornata di lavoro. Forse avrebbe aperto quella bottiglia di rosso di Nuova Alvár...
Quell'estate, nel sud di Glantri, prometteva di essere una vera delizia. La nube di cenere era ormai svanita, spazzata via dai venti evocati dai maghi della capitale, e la guerra sembrava cosí lontana... Solo poche settimane prima, sul finire della primavera, dei mercanti avevano riferito, passando per Trintán, che gli Heldann si erano uffcialmente alleati a Thyatis, ratificando un impegno che avevano mantenuto ufficiosamente per tutto l'anno passato. Certo, Freiburg era ancora sotto assedio, ma presto le orde del Khan si sarebbero stancate, e se ne sarebbero tornate a casa.
Guy chiuse gli occhi, e lasció che la brezza del Sud portasse l'aroma delle vigne, dei castagni, del fieno, alle sue narici. Li spalancó di colpo, quando la stessa brezza portó un dardo di balestra fino al suo ginocchio, inchiodandoglielo alla sedia. Lanciando un urlo di dolore, il mago cercó di capire quello che stava succedendo. Un'asta di legno, dalle penne nere, ancora vibrava nella sua gamba. Cercando di reprimere le ondate di dolore che lo assalivano, Guy provó a liberarsi, senza successo. Delle urla provenivano dalla forgia. Degli strepiti, il cozzare di armi, un esplosione, poi le parole di un incantesimo, infine un'altra esplosione, ed il fumo e le fiamme si levarono dalla forgia. La Paditte, il fabbro, uscí di corsa dalla porta, spada in mano, il viso mezzo bruciato, il grembiule di cuoio zuppo di sangue. Due, tre, quattro frecce comparvero nella sua schiena, in rapida successione. L'uomo ruzzoló in avanti, per finire ai piedi di De Kere, morto. Dalla forgia sbucarono una mezza dozzina di creature. Alte come un uomo, ma robuste come orsi, la loro pelle grigia e spessa era protetta da rozze cotte di maglia. In testa avevano elmi mostruosi, ed in mano tenevano lance corte e pesanti, ed archi di corno. Il loro viso, ferino, bestiale, ne tradiva senza ombra di dubbio l'origine.
Orchi! - mormoró, terrorizzato, De Kere. Cosa ci fanno qui degli orchi? Le Terre Morte sono almeno a due giorni di cavallo!
Il gruppo di predoni lo oltrepassó di corsa, senza badare a lui. Dopo di loro, da ogni direzione, ne arrivarono altri. Trenta, quaranta, forse cinquanta in tutto il villaggio. Da dove stava, De Kere sentiva le urla di terrore e agonia, le grida di panico che provenivano dal villaggio. Alla fine, una delle squadre di saccheggiatori si accorse che era ancora vivo. Fecero cerchio intorno a lui, sogghignando al pensiero del divertimento che li aspettava.
De Kere raccolse le forze che gli rimanevano ed inizió ad evocare una creatura. Gli orchi non capirono se non troppo tardi, quando un centopiedi lungo come un coccodrillo si materializzó dal nulla, in un lampo di zolfo e fiamme, ed attaccó l'orco piú vicino. Presi dal panico, gli altri scapparono, poco prima che la creatura evocata fosse richiamata al suo piano di origine.
Forse c'era ancora qualche speranza. Se fosse riuscito a rimediare a quella ferita, De Kere avrebbe potuto salvare il villaggio, o almeno quanta piú gente posibile. Quell'attacco era assolutamente inspiegabile. Aveva sentito dire storie sul Grande Orco, Thar, e sulle migliaia di umanoidi che si ammassavano al confine delle Broken Lands, ma pensava fossero solo storie. Le Broken Lands erano state distrutte dai frammenti della pioggia di fuoco l'anno prima, dovevano essere morti tutti, o quasi, da quelle parti. E Glantri, una nazione di maghi, come pensavano di attaccarla? Sarebbe stata follia pura... forse quello era solo uno sfortunato raid, ma perché non era giunto nessun avvertimento? Cielo! - pensó in preda al panico, scorreria o invasione, per le genti di Trintán non cambia nulla! Saranno morti tutti prima di notte, i fortunati...
De Kere estrasse il dardo dalla ferita. Forse era avvelenato? Non sembrava, e a parte i dolore per il danno al ginocchio, non sentiva altri effetti. Zoppicó verso casa, oltre il corpo di La Paditte, e rovistó tra i suoi cassetti. Ne aveva una, pronta per un esigenza del genere. Una pozione che lo avrebbe curato del tutto. Usando quella, e la sua bacchetta, avrebbe rovesciato le sorti della battaglia. Stava per ingurgitare il contenuto della pozione quando una mano grande come il corpo di un uomo entró dalla finestra e lo tiró fuori in una pioggia di schegge e frammenti di vetro.
De Kere si ritrovó faccia a faccia con un orco, ma piú alto e piú grosso di qualunque orco avesse mai visto. Lo teneva in mano come fosse una bambola di pezza, fissandolo con occhi gialli, senza pupilla, pieni di una intelligenza maligna e crudele. La sua armatura di maglia brunita, le sue armi decorate, il mantello dai colori sgargianti: quello non era un orco comune. Era un signore della guerra, un capo-tribú, un comandante. Nella sinistra teneva una gigantesca mazza chiodata, la cui testa era sporca di sangue e frammenti di ossa. La mano destra, che teneva De Kere imprigionato in una morsa di ferro, era coperta da un bracciale di metallo nero come la notte, percorso da riflessi sanguigni.
De Kere si preparó alla morte. Ormai non c'era piú nulla da fare, per lui, per Trintán, per i suoi abitanti. Pensó a tutta la bellezza e felicitá che avevano riempito i suoi occhi negli anni che vi aveva trascorso, e inizió a piangere. La morte si fece annunciare da uno strano gelo. Nel mezzo dell'estate piú calda che ricordasse, la temperatura, rapidamente, precipitó. Anche l'orco sembró perplesso. Senza allentare la presa, si guardó attorno cercando di capire perché i suoi sensi lo stessero mettendo in guardia contro una minaccia ancora nascosta.
Poi prese a nevicare. Piccoli fiocchi soffici si adagiarono sul braccio dell'orco, sul prato, sulle case.
De Kere liberó una mano dalla stretta dell'orco, e la avvicinó al volto per ammirare quella bellissima neve di giugno.
Che strano, - pensó, - i cristalli... sono verdi...
Il governatore Theophilo Magentius, si affacció agli spalti di Biazzan. Il pomeriggio era giá finito, e la fredda sera stava scendendo sulla sua cittá. Un sottile strato di neve si era accumulato sulla pietra delle mura.
Megentius aveva vissuto a Biazzan, servendo l'Impero in quella posizione, per piú di quindici anni, ed era arrivato ad un passo dalla promozione. Sarebbe potuto diventare un importante, e ricco, funzionario diplomatico, di lí a poco. Avrebbe potuto passare gli ultimi anni della sua carriera a godersi una posizione di prestigio in una delle cancellerie dell'Impero, nonostante la guerra con Alphatia.
Il suo sogno era svanito in una sola notte. Stava leggendo i rapporti che si erano accumulati sulla sua scrivania, come faceva ormai da settimane. La guerra lo costringeva a lavorare fino a tardi, rispondendo a lettere e leggendo un'infinitá di resoconti. Freiburg era ancora sotto assedio, diceva un rapporto, e le cose non si mettevano bene per i cavalieri Heldann. La cosa non sorprese il governatore per niente. La faida era iniziata meno di due anni prima, con un incidente in territorio del Gran Khan. Un gruppo di missionari, se cosí si potevano chiamare dei preti coperti da corazze d'acciaio ed armati di spade lunghe quanto un uomo, erano stati trovati pieni zeppi di frecce. Il governo del Khan aveva negato tutto, ma la cosa non aveva certo messo il cuore in pace ai Paladini e il Gran Maestro Von Klagendorf non se lo era fatto ripetere due volte. Il tempo di radunare un po' di informazioni, e l'estate successiva i Falchi da Guerra dei Cavalieri avevano sbarcato interi battaglioni dii cavalleria pesante in territorio Ethengar, uccidendo ogni uomo, donna e bambino sulla loro strada. Non lo sapeva quasi nessuno, ma il casus belli non era stata l'uccisione dei cavalieri in estate, quanto l'incompetenza del loro capitano, che si era fatto un punto d'onore di sbeffeggiare ed insultare ogni singolo Ethengariano incontrato per la sua strada. Dire che se l'era andata a cercare era dire poco, e alla fine un gruppo di giovani cavalieri delle steppe aveva deciso che la misura era colma, ed in un attacco a sorpresa aveva ridotto a puntaspilli il Capitano e la sua truppa di zelanti paladini di Vanya.
Anche se la rappresaglia degli Heldann era stata veramente smisurata rispetto all'offesa subita, Magentius restó comunque sorpreso quando arrivarono le prime notizie dell'invasione. Reputava il Gran Khan un uomo cauto, e poco interessato, in quel momento, a mettersi contro gli Heldann. Ci doveva essere l'istigazione di sua Maestá, la Saggia Eriadna, dietro un attacco lampo cosí ben riuscito. Oppure era stata semplicemente la nube di cenere che si era levata da Darokin a spingerli fuori dai loro territori, chi poteva saperlo...
Nei Possedimenti Heldann, le armate del Khan avevano distrutto diversi ponti strategici, e nell'inverno inclemente, la pesante cavalleria dei guerrieri del nord aveva il suo daffare ad inseguire i piú agili e leggeri cavalieri del Khanato. Freiburg sarebbe durata molti mesi, anche contro il migliore degli assedianti, ma non poteva resistere in eterno. Quello era proprio un brutto inverno, per l'Impero. Dopo gli Heldann, alleati informali di Thyatis, era stata la volta del castello di Redstone. Alphatia si era presa West Portage quasi un anno e mezzo prima, soprendendo una Thyatis fiacca e svogliata, corrotta e guidata da generali incompetenti. Il culto di Vanya aveva poi ripreso piede nella cittá, i giochi di gladiatori si erano moltiplicati, i venditori del frutto Zoonga erano stati arrestati e trucidati e l'entourage della bellissima Helena Ledamiades si era dato ad una conveniente clandestinitá. Un vero peccato, perché di quelle feste si raccontavano cose dell'altro mondo, aveva pensato il governatore mettendo un sigillo di ceralacca ad una lettera. Beh, Redstone era una fortezza quasi imprendibile, il bastione dell'Impero sull'Isola dell'Alba. Anche Alphatia si sarebbe dovuta prendere una bella pausa ed organizzarsi per un lungo e costoso assedio, prima di poter conquistare quella cittá. Le cose si mettevano sempre peggio per l'Impero, ma Magentius era ancora convinto che si sarebbero risolte in suo favore. Era a Biazzan, il ricco confine con gli Emirati di Ylaruam, e non aveva nulla da temere da un'accozzaglia di barbari e nomadi che preferivano passare il tempo a scatenare faide familiari.
Poi, quell'inverno, era arrivato il Profeta. O meglio, un profeta. Tra le sabbie del deserto, tra colpi di calore e sete, pensava Magentius, non doveva essere difficile darsi a deliri mistici. Sfortunatamente quel profeta era diverso. Era fortunato. O molto in gamba, o entrambe le cose, o forse aveva degli amici potenti, anche questo, forse, non lo si sarebbe mai saputo. Aveva unito in un tempo incredibilmente breve diversi clan grandi e piccoli, in una coalizione che, si sapeva, non sarebbe durata un anno. Piú che sufficiente a fare danno, purtroppo. La loro filosofia sembrava ricalcare le orme del culto dell'eroe Al-Kaleem, ed il suo sogno di trasformare le sabbie degli Emirati in un giardino fiorito, ma era allo stesso tempo un credo fanatico, passionale e brutale, volto alla conquista ed all'espansione. Chissá cosa era stato promesso loro se avessero preso una, due, tre cittá dell'Impero. Bottino? Gloria?
I seguaci del "Giardino del Deserto" avevano oltrepassato le montagne a tempo di record, e avevano preso la cittá di Fort Nikos in una sola notte. Il comandante, suo figlio, aveva preferito arrendersi piuttosto che essere la causa di uno spargimento di sangue. Ora quegli sciacalli erano alla sua porta. I profughi di Fort Nikos domandavano acqua e riparo, nel cuore dell'inverno, ed il morale delle sue truppe era sotto terra. Se avesse decretato la resa, probabilmente, non sarebbe morto nessuno. Almeno, quasi nessuno, o non per causa delle armi. Fame e freddo avrebbero mietuto molte piú vittime delle curve spade giunte dal nord. Se invece avesse deciso di combattere, in molti sarebbero morti, e la cittá sarebbe probabilmente caduta lo stesso. L'Impero, tuttavia, non si sarebbe ritrovato con un nuovo nemico a due passi da casa, e la sua carriera politica, se fosse uscito almeno in pari dallo scontro, ne avrebbe beneficiato. Quante vite valeva la sua gloria? Quanti soldati gli sarebbe costato quel posto di Diplomatico? E non era la guerra, dopotutto, a domandare sacrifici? Con un discorso ben ispirato avrebbe potuto di certo convincere i suoi a resistere, almeno fino all'estate, o all'arrivo dei rinforzi da Thyatis. E se la coalizione di nomadi si fosse sciolta nel frattempo, come la neve che si era accumulata sul parapetto...
Sono solo barbari, dopotutto... disse, spazzando via la neve dal parapetto con un colpo di mano. Si avvolse nella sua pelliccia, e si avvió rapido verso il mastio.