Non riuscivamo a credere che la città di Darokin fosse salva. Avevamo passato la prima settimana a raccogliere racconti ed informazioni, e non c'era verso di mettere ordine in quelle storie. Dal contadino al sarto e su fino al signore della casata mercantile, non c'erano due versioni che si somigliassero. Forse era la paura, che ancora faceva gelare il sangue nelle vene dei cittadini della Repubblica, forse era la gioia di essere vivi, contro ogni aspettativa. Solo una cosa accomunava i racconti: il numero degli Huleani. I nomadi dei polverosi altopiani venuti dal lontano occidente erano comparsi col sole alle spalle una notte di qualche settimana prima, e si erano accampati a un paio di leghe dalle mura di Darokin. Avevano iniziato a contarli ma non sembravano finire mai. I superstiti delle guarnigioni di Akorros ed Akesoli, i fuggiaschi delle comunità del lago Amsorak che ne avevano assaggiato la furia devastatrice, erano tutti sulle fortificazioni ad osservare l'ombra che si allargava nella piana davanti a loro. Un ombra, dicevano, fatta di piccoli corpi tozzi e dalla pelle grigia, un ombra in cui risuonavano canzoni “blasfeme”, un ombra punteggiata di fuochi, di luccicanti sciabole, di corna e pelli animali.
Non si può certo chiedere di più a degli assediati senza speranza, cui erano già giunti i racconti di cosa si diceva che gli Huleani facessero ai loro prigionieri. Probabile che metà fossero solo storie, messe in giro dagli stessi Huleani e dai funzionari di Darokin che ne erano stati corrotti, a suon di corone e scudi dorati e tintinnanti. Corrotti da accordi che avrebbero salvato le loro rotte commerciali alla fine della guerra, da promesse di ricchezze, di schiave, di principati in terre lontane. Corrotti dalla paura di morire, principalmente, alcuni tra i dignitari di Darokin si erano messi a fomentare la paura per l'esercito che arrivava.
Fuochi tra le ombre? Bivacchi, immagino. Sciabole scintillanti? Corna e pelli di animali? Beh, è un esercito di Hule, che si aspettavano? Ma io lo so, lo so meglio di tutti quanta paura mettono certe cose. Soli, abbandonati da tutte le nazioni un tempo amiche, sapevano che la guerra tra i due Imperi avrebbe dato al Signore dei Nomadi del Deserto l'occasione che tanto aveva aspettato, ma non potevano immaginare che li avrebbe sottomessi così in fretta. I sopravvissuti di Elstrich si erano catapultati in città, finché era ancora possibile, ed avevano riferito che una semplice ala dell'esercito invasore, in una scorreria, aveva quasi raso al suolo la loro città fluviale.
Poi erano arrivati, una marea dilagante. Non avevano nemmeno chiesto di trattare la resa, avevano attaccato subito e con brutalità. Poco meno che un assaggio del vero colpo che tenevano in serbo; dopo due interminabili notti di morte e sangue sulle mura, finalmente si erano decisi a negoziare. Pare che le condizioni fossero talmente ridicole da essere inaccettabili. Eppure, l'ambasciatore della Repubblica aveva detto si. Quando gli avevano chiesto cosa lo avesse indotto ad accettare una resa tanto assurdamente umiliante e dolorosa, egli aveva risposto che il comandante di quel battaglione di Huleani, meno che una frazione dell'intera armata, aveva mostrato lui le “creature”. Solo degli uomini avevano attaccato le mura di Darokin, con freccia e spada e lancia, e solo di giorni. Se la resa fosse stata rifiutata, disse, il giorno avrebbe visto gli Huleani spargere il sangue dei Darokiniani, e la notte avrebbe visto incantesimi e bestie assalire le mura, strisciare dentro la città, mangiare gli abitanti nelle loro dimore notturne. Scaglie e code, artigli e zanne, squame e lingue forcute, pungiglioni e denti gocciolanti veleno sarebbero state la ricompensa per un rifiuto.
Dopo l'annuncio della resa, qualcuno chiese la testa dell'ambasciatore, ma i bene informati dissero che egli sapeva bene quello che faceva. Non era stata dunque solo la compassione per i suoi concittadini a dettare il suo gesto. Egli era a parte di qualche segreto, e sembrava stesse puntando tutto su di esso. Quel segreto aveva un nome. Ulrich von Maatsch, Cugino di secondo grado del Re Stefano I, sovrano del neonato regno di Karameikos. Scoprimmo dopo che von Maatsch aveva versato sangue e oro a Specularum per essere sicuro di essere lui e nessun altro il campione investito del privilegio di salvare Darokin. Campione del Re, a lui era andato il comando assoluto e si era lanciato in una avventura folle.
I due eserciti, di Darokin ed Hule, erano formalmente schierati sulla piana davanti alla città. Per sancire la resa, si sarebbero dovuti incontrare a metà strada e i signori di Darokin si sarebbero dovuti inginocchiare davanti al comandante Huleano. Proprio allora, al segnale per avanzare, la terra aveva iniziato a tremare. Solo una cosa sulla terra, che non fosse un Dragone, poteva creare quel suono: la cavalleria pesante. Mille lance erano apparse sul colle verso Elstrich. Cinquanta stendardi con il simbolo delle due mani in arme che impugnavano la spada, simbolo dei von Maatsch. Ed Ulrich stesso. Il “Dio Della Morte”, il “Guardiano dell'Aldilà Huleano”, il “Caos Assassino”, la “Furia Omicida”. Ormai i soprannomi che si era guadagnato quel giorno si contavano a dozzine. La carica delle lance al suo comando fu tremenda ed irresistibile, eppure che cosa potevano fare mille cavalieri contro le migliaia di Huleani schierati? Senza la sorpresa, ben poco.
Fëaringel scoprì poco dopo che gli esploratori degli elfi di Alfheimr, di comune accordo, avevano preceduto l'armata di Ulrich per prendersi cura delle spie e delle avanguardie Huleane nascoste tutto intorno a Darokin, pronte ad avvertire dell'arrivo di ogni tipo di rinforzo. Frecce e coltelli, nella notte, avevano stroncato silenziosamente la vita di quasi cento osservatori al servizio del Signore dei Nomadi. I mezzuomini delle cinque contee, da sud, si erano occupati di quei pochi osservatori sfuggiti agli elfi. Alle lance pesanti seguirono nugoli di dardi e strali da nord, ed una sortita della guardia di Fort Nell, galvanizzata dall'arrivo di Ulrich.
Non fu una vera vittoria, perché il comandante Huleano non era stupido. Impreparato, non diede nemmeno battaglia e si ritirò in buon ordine cercando di contenere le perdite. Hule doveva sembrare invincibile, sempre. Qualche morto tra i suoi se lo poteva permettere, e sarebbe stato presto dimenticato. Una epica battaglia campale, anche se vinta, non gli avrebbe portato alcun vantaggio.
Sta di fatto che von Maatsch era arrivato, ed aveva vinto la giornata, ed aveva messo su un bel campo, ed i suoi cavalieri cantavano e bivaccavano, e si vantavano di aver salvato la città di Darokin, e lo facevano pesare ad una guardia cittadina già provata e col morale a pezzi. Una potente forza militare, quella di Ulrich, da tenersi buona fuori città. Difficile, a tratti, non vederla come una minaccia. Chi poteva dire quanto assetato di potere e bottino fosse Ulrich? E se avesse voluto saccheggiare la città? Chi glielo avrebbe impedito? Non sarebbe stata la prima volta che i salvatori si trasformavano dal giorno alla notte in carnefici. I signori di Darokin avevano il loro bel daffare a placare la sete di Ulrich con doni, feste, onorificenze e allori.
Eppure non potevo credere che gli lasciassero fare quello che avevamo visto attraversandone il campo. A tal punto lo temevano o erano indebitati con lui? Al punto che la civilissima Darokin guardava dall'altra parte quando fuori dalle sue mura regnava la barbarie? I prigionieri Huleani, più di cinquecento, li vedevamo in fila, inginocchiati e legati per il collo da corde e bastoni. Macellati come bestie, come vacche al mattatoio. Decapitati a colpi d'ascia, o la testa sfondata da colpi di azza, i capi che rotolavano in una cesta ormai stracolma. L'odore del fuoco e del fumo e della carne cotta, l'odore dell'orrore e del sudore e del panico, mentre venivano spunti a colpi di lancia e frusta in una fossa piena di olio nero ed ardente. Legati a dei pali e sgozzati come capretti, o fatti bersaglio di frecce e quadrelle, che raramente uccidevano al primo colpo. Quello che descrivemmo a Ronald lo fece rabbrividire, persino lui che aveva tempra di Nano. Un mattatoio, una regno di sangue e morte, governato dal Campione del Re. Cosa voleva dimostrare? A chi voleva mettere paura? A Hule, o alle persone che aveva salvato? Quale che fosse la sua idea, Fëaringel riferì che gli elfi lo disprezzavano almeno quanto lo tenevano in stima immediatamente dopo la battaglia in cui si era coperto di gloria.
Come poteva quell'uomo essere un simile barbaro? Il Maestro Hardin ci aveva messo in guardia, ci aveva detto di non fidarci della sua apparenza gioviale e spensierata, eppure la sua cordialità sembrava genuina, ed i suoi uomini lo adoravano come una divinità paterna e benigna. Lo avevo visto, nel suo campo, addestrare con severità il figlio tredicenne di uno dei suoi sergenti, e subito dopo trattare il bimbo con dolcezza, incoraggiandolo ed assicurandosi di non averlo ferito. Aveva una stretta di mano solida e calorosa, e gli occhi blu scuri non erano affatto malvagi, anzi.
Invitati al suo campo, a parte di alcune delle sue idee sul suo futuro a Darokin, eravamo lì come messi della Repubblica, e temevamo per la nostra vita, perché avevamo visto come von Maatsch si liberava degli ostacoli. Lo avremmo seguito in profondità nelle linee nemiche, per fare la nostra parte, per catturare i traditori che avevamo infine scovato in seno alla Repubblica, e non sapevamo se ne saremmo usciti vivi. Prima di addormentarmi, mi chiesi se Ulrich non fosse l'ennesimo folle che aveva sopravvalutato le sue possibilità, che per fama di gloria avrebbe tentato di vincere la guerra da solo, o se invece non fosse più furbo di così. Molto più furbo.
Gli occhi mi si chiudevano, sopraffatto dal sonno arretrato, accumulato in giorni di viaggio nelle Terre Selvagge e in notti di indagini a Darokin. Il rifiuto per l'orrore che avevo visto e per il futuro incerto della bella Darokin ebbero il sopravvento e mi tuffarono in un lungo oblio. Eppure, per un attimo, tra la veglia ed il sonno, ricordo di aver intuito qualcosa. Qualcosa che non avevo nemmeno immaginato prima; divenni veramente consapevole che da Ulrich avevamo più da temere che da guadagnare. La risposta era stata in cielo tutto il tempo, tra le stelle, in piena vista poco prima dell'alba. Quella stella che aveva preso a brillare così intensamente in quei giorni, di colpo. Un corpo celeste che aveva alterato la sua traiettoria, diceva quell'astrologo. Presagio di sventura? Forse. Oppure? Oppure semplicemente quello che avremmo dovuto capire giorni fa. Era apparso, con la sua soffice luce color indaco e viola scura, in una costellazione precisa. Il Basilisco.
Come dicono i guerrieri del Nord? La morte di chi uccide il Basilisco. Se lo si trafigge con la spada, il suo nero sangue corre su, lungo la lama, ed uccide toccando la mano. E' una storia, una storia con la morale, ed era scritta nelle stelle ormai da giorni. Chiunque può prepararsi ad affrontare una forza che vede. Ti insegna che devi aver paura, perché c'è una morte in agguato, una morte che non puoi vedere arrivare. Provare ad ingannare Ulrich sarebbe stato come uccidere un basilisco.
Forse ce l'avremmo fatta, ma avremmo pagato con la vita, perchè molto era ciò che ignoravamo sul suo conto...